TRA POLITICA E GIURISDIZIONE: EVOLUZIONE E SVILUPPO DELLA GIUSTIZIA COSTITUZIONALE IN ITALIA

G. ROLLA T. GROPPI

I. CARATTERI FONDAMENTALI DELLA GIUSTIZIA COSTITUZIONALE IN ITALIA

1. Composizione e competenze della Corte Costituzionale

La Costituzione italiana del 1948 testimonia il legame che unisce Stato democratico di diritto, rigidità della Costituzione, giustizia costituzionale. I costituenti italiani, una volta optato per una costituzione "rigida", garantita da un procedimento di revisione aggravato, hanno configurato conseguentemente un sistema di giustizia costituzionale, collocandolo anch'esso fra le "garanzie della Costituzione". La loro scelta si è indirizzata, in armonia con i principali orientamenti del costituzionalismo europeo tra le due guerre (espressi soprattutto nell'opera di Kelsen) verso un sindacato accentrato, con la creazione di un organo ad hoc di giustizia costituzionale, esterno al potere giudiziario.

La composizione della Corte Costituzionale riflette la ricerca di un equilibrio tra le esigenze di tecnicità e competenza giuridica, proprie di un organo giudiziario, e l'esigenza di tener conto del carattere inevitabilmente politico del giudizio costituzionale: si tratta di quindici giudici, scelti tra tecnici del diritto (magistrati delle giurisdizioni superiori, professori ordinari di università in materie giuridiche, avvocati dopo venti anni di esercizio), nominati per un terzo dal presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune, per un terzo dalle supreme magistrature.

Le attribuzioni della Corte Costituzionale, definite nell'articolo 134 Cost., sono quelle tipiche di un organo di giustizia costituzionale.

Ad essa spetta:

a) giudicare la legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle regioni;

b) risolvere i conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, tra Stato e regioni, tra regioni;

c) giudicare i reati commessi dal presidente della Repubblica (alto tradimento e attentato alla Costituzione); la legge costituzionale n. 1 del 1953, all'articolo 2, ha aggiunto una ulteriore competenza a quelle già previste nel testo della Costituzione;

d) giudicare la ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo, che possono essere presentate da 500.000 elettori o da 5 consigli regionali, ai sensi dell'articolo 75 costituzionale.

2. Limitatezza delle competenze della Corte costituzionale e centralità del giudizio incidentale

Queste competenze, se comparate con altri modelli di giustizia costituzionale, e in particolare con quelli di più recente creazione, si caratterizzano, ad una prima osservazione, per la apparente limitatezza e essenzialità.

Da un lato la Corte Costituzionale italiana è sprovvista -se si esclude il giudizio sui reati del presidente della Repubblica- di competenze estranee all'ambito proprio della giustizia costituzionale, presenti in altri sistemi di giustizia costituzionale, e che hanno una natura quasi politica: basti pensare alle competenze in materia elettorale, in tema di controllo sui partititi politici, in ordine alla verifica degli impedimenti del presidente della Repubblica, che connotano molti ordinamenti stranieri.

Dall'altro, anche in riferimento a quella che appare come la principale competenza della Corte, il controllo di costituzionalità delle leggi, emergono, nell'ambito del sistema di giustizia costituzionale disciplinato dagli articolos 134-137 costituzionales, dalla legge costituzionale n. 1 del 1948 e dalla legge n. 87 del 1953, molteplici elementi di limitatezza: riguardo alle vie di accesso al giudizio, all'oggetto del giudizio medesimo, alla tipologia e alla portata delle pronunce che lo definiscono.

In primo luogo, il sistema di accesso al giudizio di costituzionalità si presenta alquanto circoscritto: si tratta essenzialmente di un tipo di controllo incidentale a posteriori, che sorge nell'ambito di un procedimento giudiziario, in riferimento a una disposizione che il giudice deve applicare per la soluzione del processo a quo.

Non è prevista alcuna forma di ricorso diretto nè da parte di privati cittadini, nè da parte di gruppi parlamentari, nè da parte di enti territoriali di livello subregionale: soltanto le regioni possono impugnare, in via diretta, leggi statali o di altre regioni ritenute lesive delle proprie competenze, e il governo può fare altrettanto nei confronti delle leggi regionali. Le chiavi per aprire la porta del giudizio costituzionale sulle leggi sono principalmente in mano al giudice ordinario, che svolge in tal modo una importante attività di selezione delle questioni che la Corte sarà chiamata ad affrontare.

In secondo luogo, l'oggetto del controllo di costituzionalità è rappresentato esclusivamente dalle leggi e dagli atti aventi forza di legge. Viceversa, non rientra nella giurisdizione costituzionale il controllo della costituzionalità delle fonti di grado inferiore a quello primario, a differenza di quanto avviene in molti sistemi di giustizia costituzionale, nè delle sentenze rese dai giudici.

La Corte non può, inoltre, allontanarsi dalthema decidendum (ossia dall'oggetto e dal parametro) individuati nell'atto introduttivo: come dice l'articolo 27 della legge n. 87 del 1953, "la Corte costituzionale, quando accoglie una istanza o un ricorso relativo a questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, dichiara, nei limiti dell'impugnazione, quali sono le disposizioni legislative illegittime". In altri termini, il controllo del giudice costituzionale è limitato alla questione che gli è stata sottoposta, e si svolge "nei limiti dell'impugnazione". Il medesimo articolo 27, tuttavia, introduce una eccezione a questo principio generale: la Corte può dichiarare altresì "quali sono le altre disposizioni legislative la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata". Si è di fronte, in questo caso, alla "illegittimità costituzionale conseguenziale".

In terzo luogo, limitata appare anche la tipologia delle decisioni che concludono il giudizio: si tratta, se si escludono le pronunce meramente interlocutorie o con le quali la questione viene respinta in rito, di sentenze di accoglimento o di rigetto, delle quali la legge predetermina gli effetti, anche temporali, in modo alquanto semplificato.

Le sentenze di rigetto non dichiarano la costituzionalità della legge, si limitano a rigettare la questione nei termini nei quali è stata sollevata: esse sono sprovviste di efficacia erga omnes, per cui la stessa questione può essere nuovamente sollevata, tanto con la stessa motivazione che con una motivazione differente; soltanto il giudice che ha sollevato tale questione non può riproporla nell'ambito dello stesso giudizio: a questo proposito si parla di efficacia inter partes di detto tipo di decisioni. Al contrario, le sentenze di accoglimento hanno efficacia erga omnes e producono effetti retroattivi, nel senso che dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza di accoglimento, la norma incostituzionale non può essere applicata. Tale retroattività incontra un limite nei rapporti esauriti. Ragioni di opportunità e di certezza del diritto inducono a sostenere che tali sentenze non devono riguardare situazioni già risolte con sentenza passata in giudicato, nè questioni per le quali sono decorsi i termini di prescrizione o decadenza, anche se sussiste una ulteriore eccezione relativamente al caso in cui in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna: infatti la legge prevede che ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali.

Se si passa a un esame dei dati statistici della attività della Corte, si può verificare ulteriormente la limitatezza ed essenzialità delle sue competenze: la stragrande maggioranza della attività della Corte è dedicata al controllo di costituzionalità delle leggi, che prevale nettamente rispetto alle altre competenze, ed in particolare rispetto ai conflitti Stato-regioni.

Nell'ambito di questo tipo di giudizio un notevole rilievo viene assunto dal giudizio incidentale, che, come testimoniano i dati, ha assorbito nei quaranta anni di vita della Corte costituzionale, la maggior parte della sua attività e sul quale occorre pertanto concentrare l'attenzione.

3. Carattere giurisdizionale del controllo sulla costituzionalità delle leggi svolto dalla Corte Costituzionale

Il modello di controllo di costituzionalità delle leggi affidato alla Corte Costituzionale italiana si basa sulla distinzione qualitativa tra giustizia costituzionale e altre forme non giurisdizionali di controllo della costituzionalità delle leggi.

La Costituzione italiana prevede vari meccanismi di sindacato sulle decisioni del legislatore. Particolare rilievo assume il controllo svolto dal presidente della Repubblica in sede di promulgazione delle leggi statali (che possono essere rinviate alle Camere con messaggio motivato, affinchè queste procedano a una nuova deliberazione: articolo 74 costituzionale), nonchè quello esercitato dal governo sulle leggi regionali (che possono essere rinviate, tramite il Commissario del Governo, al Consiglio regionale per una nuova deliberazione che deve avvenire a maggioranza assoluta: articolo 127 costituzionale). Tuttavia, la giustizia costituzionale si differenzia da questi procedimenti, in quanto: a) si tratta di un controllo svolto da un organo esterno al procedimento legislativo e dotato di garanzie di imparzialità e professionalità; b) la attività di controllo si svolge tramite un procedimento che presenta i caratteri del processo; c) la decisione con la quale si conclude è il risultato della applicazione di tecniche proprie del metodo giuridico.

La Corte costituzionale è, quindi, un vero e proprio "giudice", benchè estraneo all'ordinamento giudiziario. Un giudice speciale, che risolve e decide le questioni che gli sono sottoposte attraverso gli strumenti processuali, come la Corte stessa ha in varie occasioni riconosciuto. Tuttavia, si tratta di un processo sui generis: oggetto del giudizio è infatti una legge, ossia un atto frutto della volontà di soggetti politici, parlamento e governo, con tutte la conseguenze che ne derivano. Al riguardo, si è parlato del processo costituzionale come di un "processo di diritto obiettivo", destinato, principalmente, a garantire la conformità della legge al testo costituzionale, e, pertanto, a tutelare un interesse superiore: il mantenimento della costituzionalità delle leggi.

Tre sono gli elementi che determinano la specialità del processo costituzionale.

a) Benchè il processo costituzionale sia finalizzato alla garanzia dell'interesse obiettivo dell'ordinamento alla costituzionalità delle leggi, tuttavia a questo interesse si accompagna la volontà di proteggere i concreti diritti soggettivi lesi dal legislatore: garanzia dell'ordinamento e protezione delle posizioni soggettive non costituiscono aspetti antitetici, ma complementari, soprattutto quando si consideri che "l'ordinamento è tanto più obiettivo e giusto quanto maggiore, intensa e diretta è la difesa dei diritti".

b) Il processo costituzionale, a differenza di altri procedimenti giurisdizionali, si caratterizza per un elevato grado di flessibilità degli strumenti processuali. Flessibilità che non deriva dalla mancanza di una normativa apposita, ma dall'ambito di libertà che in materia di interpretazione e di applicazione delle regole processuali spetta al nostro giudice costituzionale. La Corte Costituzionale, a differenza di tutti gli altri giudici italiani, possiede, quanto alla disciplina del proprio processo, poteri normativi che si concretano o nell'adozione di vere e proprie norme processuali (le "norme integrative per i giudizi davanti alla Corte Costituzionale") o in semplici decisioni processuali. Questo margine di manovra consente alla Corte di modificare la prassi precedente, o le norme processuali stesse, al fine di raggiungere l'obiettivo perseguito, ossia la piena effettività dei valori costituzionali. Questa "discrezionalità" dell'organo di giustizia costituzionale ha diviso la dottrina: alcuni autori ritengono preferibile sottoporre l'attività della Corte a regole processuali certe e determinate con precisione, mentre altri ritengono ineliminabili certi margini di discrezionalità, che sarebbero insiti nella natura stessa dell'attività svolta dal giudice delle leggi. Da qui la polemica tra coloro che sottolineano la natura giurisdizionale del giudizio sulla costituzionalità delle leggi e coloro che invece evidenziano il suo carattere necessariamente politico.

c) Il giudice costituzionale, oltre che come giudice, si configura anche come un soggetto che "crea" norme giuridiche. Infatti ad esso spetta l' "ultima parola" quanto alla interpretazione della Costituzione. E questa "ultima parola" ha un valore vincolante per gli operatori del diritto, molto simile a quello del precedente. Questa caratteristica del controllo di costituzionalità dà alle decisioni della Corte una portata particolare, molto diversa da quella delle sentenze di altri giudici: esse producono effetti simili a quelli propri delle fonti del diritto.

Sulla base di queste tre caratteristiche (giudizio orientato principalmente a garantire la coerenza dell'ordinamento; discrezionalità nell'applicazione delle norme processuali; valore normativo delle decisioni) occorre ribadire la natura giurisdizionale del controllo di costituzionalità delle leggi svolto dalla Corte Costituzionale italiana. Tuttavia, non si possono dimenticare gli elementi peculiari, che consentono di parlare di un tertium genus, nel quale, indipendentemente dalla sua natura giurisdizionale, si utilizzano, in alcuni casi, anche criteri di valutazione propri del processo di decisione politica: la Corte stessa ha d'altra parte negato di poter essere inclusa, tout court, tra gli organi giudiziari, ordinari o speciali che siano, "tante sono, e profonde, le differenze tra il compito affidato alla Corte, senza precedenti nell'ordinamento italiano e quelli ben noti e storicamente consolidati propri degli organi giurisdizionali" (sent. n. 13 del 1960 e ord. n. 536 del 1995). Non va dimenticato, infatti, che "un buon sistema di giustizia costituzionale è quello nel quale si può individuare un giusto punto di equilibrio" tra politica e giurisdizione. Questa affermazione, benchè di portata generale, risulta particolarmente appropriata nel caso italiano, nel quale la "ambiguità" del sistema è stata perseguita dal legislatore medesimo (ed è risultata poi accentuata dalle anomalie del sistema politico italiano).

II. EVOLUZIONE DEL MODELLO ITALIANO DI CONTROLLO DI COSTITUZIONALIT DELLE LEGGI

1. Un modello accentrato e concreto di giustizia costituzionale

L'analisi delle competenze stabilite nella Costituzione e l'esame della disciplina del procedimento costituiscono tappe indispensabili per comprendere il funzionamento della Corte Costituzionale italiana, ma non sono sufficienti per percepire il ruolo da essa svolto nell'ordinamento. A tal fine è necessario considerare altri aspetti del fenomeno, tener conto della sua storia e valutare le disposizioni relative al controllo di costituzionalità secondo il dinamismo imposto al sistema dalla giurisprudenza.

L'esame della sola normativa rende difficile la comprensione del sistema vigente. Se si seguono i modelli teorici tradizionali, per cui da un lato si ha il modello nordamericano (judicial review of legislation), diffuso, concreto, le cui decisioni hanno efficacia inter partes, e, dall'altro, il modello austriaco di giustizia costituzionale (Verfassungsgerichtbarkeit), accentrato, astratto, le cui decisioni hanno efficacia erga omnes, risulta evidente che è stato soprattutto quest'ultimo ad aver influenzato i costituenti italiani.

Indubbiamente, la legislazione ha sfumato la purezza del modello austriaco di impostazione kelseniana, introducendo aspetti vicini al modello statunitense di judicial review of legislation.

Da un lato, si è attenuato il carattere accentrato, attribuendo ai giudici una doppia e importante competenza: in primo luogo la decisione se sollevare o meno la questione di costituzionalità; in secondo luogo, il controllo della costituzionalità degli atti normativi sprovvisti di forza di legge (controllo che spetta in via esclusiva alla giurisdizione ordinaria). Questa peculiarità incide in maniera significativa nella definizione del sistema italiano, in quanto consente di sostenere che non si tratta di un modello di giustizia costituzionale assolutamente accentrato, ma di un modello che presenta anche tratti caratteristici dei sistemi di controllo di costituzionalità di tipo diffuso.

Dall'altro lato, la importanza assunta dal requisito della rilevanza della questione e dalla motivazione di questa da parte del giudice hanno introdotto nel procedimento tratti simili a quelli esistenti nei procedimenti di controllo concreto.

La natura ibrida del sistema italiano si è accentuata con la prassi giurisprudenziale che, in alcune fasi dell'attività della Corte Costituzionale, ha contribuito a elevare il livello di concretezza del giudizio. Al riguardo si può sottolineare:

a) la recente e drastica riduzione del tempo della decisione e la conseguente eliminazione delle questioni pendenti consente che, con sempre maggiore frequenza, il risultato della decisione costituzionale produca effetti concreti anche per le parti del giudizio a quo;

b) l'incremento della tendenza della Corte Costituzionale a utilizzare, prima di decidere, i poteri istruttori normativamente previsti: in conseguenza, il giudice costituzionale può meglio apprezzare i termini effettivi della questione che ha dato origine al dubbio di costituzionalità, gli effetti che deriveranno dalla decisione, l'impatto di questa sull'ordinamento;

c) la formazione, sotto due aspetti, di un continuuminterpretativo tra il giudice costituzionale e i giudici ordinari (in particolare la Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato). Da un lato, i principi di diritto e la interpretazione delle norme costituzionali fornita dalla Corte costituzionale acquisiscono valore per tutti gli operatori del diritto, e in particolare per i giudici, che debbono applicare direttamente la Costituzione o decidere sulla applicazione degli atti privi di forza di legge. Dall'altro, nella soluzione delle questioni di costituzionalità, la Corte Costituzionale tende ad assumere la disposizione di legge non nel suo significato astratto, ma per come risulta dalla sua concreta operatività nel sistema. La Corte tende a pronunciarsi sul diritto vivente, ossia sulla norma per come essa è stata interpretata dalla giurisprudenza. In tal modo sembra essersi instaurata una tacita suddivisione di compiti tra giudice costituzionale e giudice ordinario, di modo che, nell'ambito delle rispettive sfere di competenza, ciascuno convalida e fa propria la interpretazione dell'altro. Questa tendenza può interrompersi per la eccessiva rapidità della Corte nel decidere le cause: l'oggetto del processo può infatti in tal caso essere costituito da disposizioni sulle quali non si è ancora formato un diritto vivente.

Si può in definitiva affermare che il sistema italiano si è evoluto nel senso di superare la distinzione tra i due tradizionali modelli teorici, dando vita a un tertium genuso, meglio ancora, a un sistema ibrido, aperto alle influenze di entrambi i due grandi modelli. Nel sistema italiano, come risulta da quanto detto fin qui, sono presenti molteplici degli elementi utilizzati dalla dottrina per classificare i diversi sistemi di giustizia costituzionale: il sistema è accentrato nel caso di leggi e atti con forza di legge, ma diffuso quando l'oggetto sia costituito da una fonte di grado inferiore; il controllo di costituzionalità si realizza a posteriori nel caso di giudizio in via incidentale o in caso di impugnativa da parte delle regioni di leggi dello Stato, mentre è a priori quando lo Stato impugni una legge regionale; infine, le decisioni della Corte producono effetti erga omnes se sono di accoglimento, mentre hanno effetti soltanto inter partes se si tratta di decisioni di rigetto.

2. Le decisioni interpretative e manipolative e i rapporti con i giudici e con il legislatore

Le competenze della Corte Costituzionale italiana e il procedimento di controllo di costituzionalità sono stati disciplinati negli anni immediatamente successivi alla entrata in vigore della Costituzione e non hanno subito modifiche di rilievo fino ad oggi. A fronte di questa situazione legislativa statica, la giurisprudenza costituzionale è stata caratterizzata da un intenso dinamismo. Durante questo periodo la Corte Costituzionale ha rinnovato i propri strumenti processuali, essenzialmente attraverso l'interpretazione, e non tramite vere e proprie innovazioni normative. L'ambito nel quale il giudice costituzionale italiano ha mostrato maggiore creatività è quello relativo alla portata delle proprie decisioni e, in primo luogo, agli effetti delle medesime sull'ordinamento.

La Costituzione e la legislazione disciplinano soltanto la struttura e gli effetti delle sentenze di accoglimento e di rigetto: la ricca tipologia di sentenze che connota il sistema italiano di giustizia costituzionale è il risultato dell'opera creatrice della Corte, che ha individuato modalità di soluzione delle controversie a partire non tanto da una teoria astratta, ma dalla necessità di dare risposta a specifiche esigenze pratiche.

In particolare, i vari tipi di sentenza nascono dalla necessità, avvertita dalla Corte Costituzionale, di ponderare gli effetti delle proprie decisioni e di calibrarli sulla base dell'impatto che possono provocare non solo sull'ordinamento giuridico, ma anche sui rapporti con gli altri poteri dello Stato, in primis con il Parlamento e con il potere giudiziario.

Questo risultato è stato possibile tecnicamente partendo dalla distinzione teorica tra disposizione e norma. La prima rappresenterebbe l'espressione linguistica mediante la quale si manifesta la volontà dell'organo che emana un determinato atto giuridico. La norma, al contrario, costituisce il risultato di un processo interpretativo realizzato sulla disposizione e che può condurre, tramite l'uso dell'ermeneutica, giuridica, a ricavare più di una norma da una sola disposizione o una sola norma da più disposizioni. Questa distinzione tra disposizione e norma risulta rilevante in quanto permette la separazione della norma dal significato linguistico originario della disposizione, spezzando il cordone ombelicale che la lega al momento in cui venne approvata. In definitiva, questa differenziazione consente la evoluzione del sistema, agevolando l'attività creativa dell'interprete e permette di ridurre al minimo gli interventi demolitori della Corte, e le conseguenti lacune dell'ordinamento, dandole la possibilità di operare con strumenti "chirurgici" alquanto raffinati.

A. I rapporti con i giudici

L'esigenza di definire i rapporti con i giudici, cui spetta il compito di interpretare la legge, ha indotto la Corte Costituzionale a due tipi di pronunce, le decisioni correttive e le sentenze interpretative, di rigetto o di accoglimento, che hanno consentito una ripartizione di compiti tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione costituzionale e hanno limitato i conflitti e le interferenze creatisi nei primi anni di attività della Corte.

a) Con le pronunce c.d. " correttive" il giudice costituzionale non affronta il merito della questione. Si limita a rilevare che l'interpretazione data dal rimettente non è quella corretta, in quanto egli non ha tenuto conto dell'orientamento dei tribunali, del diritto vivente, del significato palese delle disposizioni e, sempre più di frequente, che tra le varie interpretazioni possibili il giudice non ha scelto quella conforme a Costituzione.

b) Con lepronunce interpretative il giudice costituzionale fa propria una delle interpretazioni possibili della disposizione censurata, scegliendo quella conforme (sentenze interpretative di rigetto) o quella contraria (interpretative di accoglimento) alla Costituzione.

In particolare, in assenza di "diritto vivente" (cioè di una interpretazione giudiziaria consolidata e univoca), la Corte propone ai giudici una propria interpretazione "adeguatrice", che consenta di salvare la norma dalla incostituzionalità: con le " sentenze interpretative di rigetto" la Corte affronta la questione nel merito, dichiarandola non fondata, in quanto è possibile attribuire alla disposizione impugnata un significato normativo differente da quello accolto dal giudice o dal ricorrente, conforme alla Costituzione: la Corte, tra i possibili significati di una disposizione, opta per quello che considera compatibile con la Costituzione, lasciando da parte quelli che potrebbero porsi in contrasto con la Costituzione.

La interpretazione offerta dalla Corte non ha, però, efficacia erga omnes: essa non è vincolante e può imporsi soltanto grazie alla efficacia persuasiva della motivazione o alla autorevolezza del giudice delle leggi. Un obbligo giuridico si crea soltanto nei confronti del giudice che ha sollevato la questione: nel corso del processo egli non può applicare la norma nel significato che inizialmente le aveva attribuito, sulla base del quale aveva sollevato la questione.

c) A fronte della tendenza dei giudici a disattendere l'interpretazione delle leggi fornita dalla Corte, essa si è vista obbligata a superare i limiti strutturali insiti nelle sentenze interpretative di rigetto, dando vita alla tipologia delle sentenza interpretative di accoglimento. Sentenze con le quali il giudice costituzionale sceglie, tra i possibili significati di una norma, quello incompatibile con la Costituzione che viene, quindi, dichiarato incostituzionale. Resta aperta la possibilità di dare alla disposizione tutti gli altri significati: il risultato interpretativo è simile a quello del precedente tipo di pronuncia, ma gli effetti sono diversi. Con le sentenze interpretative di accoglimento la Corte non elimina dall'ordinamento giuridico la disposizione, ma una delle norme che da tale disposizione possono ricavarsi. La disposizione, in altri termini, continua ad essere applicata e, quindi, efficace, ad eccezione della norma considerata incostituzionale.

B. I rapporti con il legislatore

Se le pronunce interpretative appaiono ispirate dalla volontà di definire i rapporti con i giudici ordinari, le decisioni manipolative hanno invece comportato una incidenza nei rapporti tra la Corte e il legislatore.

a) Particolarmente delicato è, al riguardo, il tema delle sentenze additive, con le quali una disposizione viene dichiarata incostituzionale non per quello che prevede, ma per quello che non prevede: in tal modo la Corte viene ad introdurre nell'ordinamento norme nuove, che non si possono ricavare dal testo normativo. Questo tipo di decisioni contraddice la impostazione kelseniana della giustizia costituzionale, in base alla quale il giudice costituzionale avrebbe dovuto caratterizzarsi come una sorta di "legislatore negativo". Con queste sentenze il giudice delle leggi si trasforma in creatore di norme giuridiche, venendo quindi a svolgere un ruolo che nel nostro ordinamento spetta principalmente al Parlamento: d'altra parte in molti casi il mero annullamento della legge incostituzionale non risolverebbe il problema posto dalla questione di legittimità costituzionale, e l'aggiunta di una norma mancante costituisce l'unica via per ripristinare la costituzionalità violata, e, quindi, perchè la giustizia costituzionale svolga il suo ruolo.

Un primo tentativo per limitare la portata creatrice insita in tali pronunce consiste nell'indulgere in tali pronunce solo nei ai casi in cui si tratti di sentenze "a rime obbligate", ossia quando la soluzione normativa proposta dalla Corte è logicamente necessitata e implicita nel contesto normativo, risultando assente ogni possibile scelta discrezionale.

b) Un secondo tentativo per ovviare alle interferenze con la sfera parlamentare che tali pronunce implicano ha portato, negli anni più recenti, a sviluppare una tipologia di sentenze in parte differente, le sentenze "additive di principio". Con queste decisioni la Corte non introduce nell'ordinamento nuove norme giuridiche, ma principi, cui il legislatore dovrà dare attuazione con disposizioni che abbiano portata erga omnes. Nella motivazione di queste sentenze in alcuni casi la Corte indica il termine entro cui il legislatore è tenuto ad intervenire e detta i principi ai quali il legislatore medesimo si dovrà ispirare: in questo modo si viene a combinare nello stesso strumento decisionale il contenuto di una vera e propria sentenza additiva con una sentenza "di delega", giungendo a conciliare l'immediatezza dell'accoglimento con la salvezza della sfera di discrezionalità spettante al legislatore. Maggiori problemi tali pronunce pongono quanto alla loro efficacia nei confronti dei giudici comuni: infatti, mentre nella maggior parte dei casi si ritiene che la mediazione del legislatore sia comunque indispensabile per applicare il principio, in alcuni casi i giudici hanno ritenuto di poter trarre dalla pronuncia la regola del caso concreto.

c) Un altro tipo di decisioni nate dalla necessità di cautela nei confronti del legislatore sono le c.d. decisioni monitorieo le" doppie pronunce". La Corte ha fatto ricorso a questo strumentario quando si è trovata ad affrontare questioni dotate di un elevato grado di politicità. In questi casi essa ha preferito prendere tempo e preannunciare la sua decisione nel senso della incostituzionalità della norma impugnata, senza giungere però a dichiararla espressamente. Il giudice costituzionale ha introdotto una scissione logica tra parte dispositiva e motivazione: la prima determina la inammissibilità della questione di costituzionalità; la seconda, al contrario, lascia intravedere chiaramente che i dubbi di costituzionalità sono fondati. Strutturalmente le doppie pronunce implicano che in un primo tempo la Corte rigetti la questione sollevata, sollecitando il legislatore a intervenire. Se il Parlamento non agisce, qualora la questione sia sollevata di nuovo, la Corte opterà per una sentenza di accoglimento, dichiarando la incostituzionalità della norma impugnata.

d) Infine, l'alto tasso di politicità presente in alcune questioni, unitamente alla necessità di contemperare la difesa dei diritti sociali con crisi finanziaria dello Stato, ha obbligato il giudice costituzionale a modulare gli effetti temporali delle decisioni di accoglimento. La Corte cerca, in tal modo, da un lato di assicurare al governo e al Parlamento il tempo necessario per colmare le lacune provocate dalla decisione di accoglimento, dall'altro di trovare un equilibrio tra i diritti costituzionali propri dello Stato sociale e le ristrettezze economiche.

Questo problema non caratterizza unicamente l'ordinamento italiano. Il diritto comparato offre molteplici soluzioni. La Corte Costituzionale austriaca può posticipare fino ad un anno gli effetti delle sentenze di accoglimento, per consentire al Parlamento di disciplinare la materia ed evitare vuoti normativi. Il Tribunale Costituzionale Federale tedesco può altresì adottare pronunce di semplice incompatibilità (Unvereinbarkeit), senza la dichiarazione di nullità, o può dichiarare che la legge è "ancora" costituzionale. In questo caso la legge viene dichiarata costituzionale solo provvisoriamente: il Tribunale conserva il potere di dichiarare la legge incostituzionale se il legislatore non adegua la normativa al contenuto indicato nella sentenza.

In Italia, al contrario, gli effetti temporali delle sentenze di accoglimento sono predeterminati rigidamente. La Corte Costituzionale ha cercato, attraverso la sua giurisprudenza, di graduare nel tempo gli effetti delle proprie decisioni, in due modi. Innanzitutto stabilendo limiti agli effetti retroattivi delle decisioni di accoglimento (al fine, ad esempio, di salvaguardare determinati atti processuali) tramite le c.d. " sentenze di illegittimità sopravvenuta", in base alle quali l'annullamento non eliminerebbe la norma ab initio, ma soltanto a partire dal momento nel quale si viene a determinare il vizio della legge: l'ipotesi più semplice è costituita dal sopravvenire di un nuovo parametro, ma è anche possibile fare riferimento a un mutamento economico-finanziario, a quello della coscienza sociale e, più in generale, al mutamento delle condizioni che rendevano una norma compatibile con la Costituzione.

Inoltre, essa ha posticipato nel tempo gli effetti della declaratoria di incostituzionalità (ad esempio nel caso di sentenze che producono spese per l'erario), lasciando al legislatore un lasso di tempo predeterminato per intervenire prima che la disposizione venga annullata: si tratta delle c.d. pronunce di "incostituzionalità differita", nelle quali è la Corte stessa, sulla base del bilanciamento dei vari valori costituzionali, a individuare il dies a quo degli effetti caducatori. Tali pronunce presentano gravi problemi di compatibilità con il sistema italiano di giustizia costituzionale, in quanto non incidono sul processo a quo, derogando alla incidentalità che lo caratterizza.

III. LE PRINCIPALI FASI DI SVILUPPO DELLA GIUSTIZIA COSTITUZIONALE E LA SUA INFLUENZA SULLA FORMA DI GOVERNO

Per valutare il ruolo assunto dalla Corte Costituzionale nel sistema costituzionale italiano e i suoi rapporti con gli altri poteri dello Stato si possono distinguere, con tutti i rischi di semplificazione che le periodizzazioni comportano, varie fasi nella sua attività.

1. La promozione delle riforme

Il primo periodo (dagli anni cinquanta all'inizio degli anni settanta) può definirsi di "attuazione della Costituzione" o di "promozione delle riforme". Esso si caratterizza per il ruolo di primo piano giocato dalla Corte Costituzionale nella modernizzazione e nella democratizzazione dell'ordinamento giuridico italiano, nonchè nella affermazione dei valori della nuova Costituzione repubblicana. In questa attività di riforma del sistema la Corte è giunta a sostituire il Parlamento, lento e timoroso nel modificare una legislazione ereditata dal precedente orientamento. Il giudice costituzionale ha svolto da un lato una funzione che può definirsi "didattica", in quanto ha reso vitali i principi costituzionali facendo sì che tutto il corpo sociale ne venisse a conoscenza, e, dall'altro lato, una funzione di impulso e stimolo, in quanto ha rinnovato l'ordinamento con l'eliminazione delle norme contrarie a Costituzione. Il giudice delle leggi si è ripetutamente trovato a supplire al Parlamento, che portava avanti con lentezza e titubanza la riforma della legislazione ed è entrato in conflitto con le supreme magistrature, in particolare con la Corte di Cassazione e con il Consiglio di Stato, secondo le quali le norme costituzionali programmatiche non avrebbero potuto essere utilizzate come parametro di controllo. Fin dalla sua prima sentenza (sent. n. 1 del 1956), che costituisce un pilastro della giurisprudenza costituzionale italiana, la Corte ha affermato il carattere vincolante di tutte le norme costituzionali (superando pertanto la classica distinzione tra norme precettive e norme programmatiche), non soltanto nei confronti dei poteri pubblici, ma anche dei privati, e ha ribadito la sua competenza a controllare anche la legislazione precostituzionale. In questo modo, anche grazie alla attività di stimolo della parte più avanzata della magistratura, che ha sollevato numerose questioni di incostituzionalità relative a leggi precedenti alla Costituzione, in materia di libertà, diritti sociali ed economici, il giudice costituzionale ha potuto depurare l'ordinamento da molteplici norme incostituzionali risalenti all'ordinamento statutario e fascista. Si possono ricordare gli interventi a tutela della libertà della persona (come le sentenze relative al testo unico di pubblica sicurezza del 1931, al vecchio sistema di carcerazione preventiva che non stabiliva limiti di durata), della libertà di espressione (che viene depurata delle più odiose eredità del fascismo, quali le molte autorizzazioni di polizia), della libertà di riunione (viene dichiarata la illegittimità costituzionale della disposizione che prevedeva l'obbligo di preavviso per le riunioni in luogo aperto al pubblico, sent. n. 27 del 1958) della eguaglianza tra i sessi (viene dichiarata incostituzionale, con la sent. n. 33 del 1960, una disposizione del 1919 che escludeva le donne da una vasta categoria di impighi pubblici).

In questa prima fase il giudice costituzionale venne considerato, sia dagli studiosi di diritto che dall'opinione pubblica, come il principale, se non l'unico, interprete e difensore della Costituzione e dei valori in essa contenuti. Proprio questa fase consente di comprendere la autorevolezza e il prestigio che la Corte Costituzionale ha acquisito nella forma di governo italiana, pur trattandosi di un organo creato ex novo dai Costituenti, ponendo le basi per la sua legittimazione.

2. La mediazione dei conflitti sociali e politici

La seconda fase va dalla metà degli anni settanta alla metà degli anni ottanta ed è stata definita quella della "mediazione dei conflitti sociali e politici": si tratta di un periodo nel quale, terminata l'opera di "ripulitura" della legislazione precostituzionale, l'oggetto del giudizio di costituzionalità è rappresentato da leggi recenti, elaborate e approvate dal Parlamento repubblicano. Pertanto, il ruolo della Corte assume un più elevato tasso di politicità e si caratterizza, essenzialmente per la ricerca di un equilibrio e di una mediazione tra i diversi interessi e valori coinvolti nella questione di costituzionalità, attraverso la tecnica del bilanciamento.

La Corte è andata lentamente mutando i caratteri del suo giudizio: non si tratta più soltanto di applicare il tradizionale sillogismo, raffrontando la norma inferiore con quella superiore, ma di considerare i valori costituzionali in gioco, di soppesarli e di stabilire non tanto quale di essi deve prevalere, ma quale sia il miglior equilibrio possibile tra i medesimi. In sintesi, si può affermare che in questa fase il giudice costituzionale valuta la scelta del legislatore, l'uso della sua discrezionalità, per verificare se ha preso in considerazione adeguatamente tutti i valori e i principi costituzionali suscettibili di incidere su di una certa materia.

Questa operazione è stata possibile, tecnicamente, a partire da una interpretazione evolutiva del principio di eguaglianza. Dall'articolo 3 della Costituzione, secondo il quale tutti sono uguali davanti alla legge, può trarsi un dovere di ragionevolezza per il legislatore, nel senso che egli non solo deve introdurre una disciplina diversa per situazioni differenti, ma anche che non deve utilizzare criteri arbitrari. Affinchè la norma non sia incostituzionale, si deve evitare la contraddizione tra finalità della legge e disciplina normativa concreta, tra obiettivo perseguito e strumenti giuridici utilizzati per il suo raggiungimento; in definitiva, si deve evitare una irrazionale contraddizione tra finalità della legge e contenuto della disposizione.

Inoltre, il giudice delle leggi si trova a interpretare un testo costituzionale che fa propri i principi dello Stato sociale, ossia, che riconosce i diritti sociali, in un contesto caratterizzato dalla crisi finanziaria dello Stato. La Corte viene presa tra Scilla e Cariddi: tra il pericolo di abdicare al suo ruolo di supremo garante della Costituzione e dei diritti in essa garantiti e il pericolo di provocare con le sue decisioni seri contraccolpi di natura economica. La Corte ha dato applicazione in questa fase alle disposizioni costituzionali in tema di diritti sociali senza darsi carico del problema degli effetti delle proprie decisioni: frequente è stato il ricorso a decisioni di tipo additivo che, oltre a incidere pesantemente nella sfera del legislatore, hanno avuto un rilevante impatto sulla spesa pubblica.

Molteplici sono i temi toccati dalle pronunce della Corte, nell'ambito di una società che si va laicizzando: basti pensare alle pronunce in tema di divorzio, di aborto (al riguardo, la sentenza n. 27 del 1975 cerca un difficile equilibrio tra tutela del concepito e salvaguardia della salute della madre), di rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose, di diritto di famiglia; in materia di diritto di sciopero (viene dichiarata la illegittimità costituzionale dello sciopero politico), nonchè su molteplici temi del diritto del lavoro e della previdenza sociale. Cadono, così, quelle che sono definite "ingiustificate discriminazioni" nelle retribuzioni del pubblico impiego (sent. n. 10 del 1973), viene assolto dalle censure di incostituzionalità lo statuto dei lavoratori (sent. n. 54 del 1974), mentre innumerevoli sono le sentenze additive di spesa, che vengono a riequilibrare (verso l'alto) la "giungla retributiva". Emblematiche di questa fase sono anche le molteplici pronunce in tema di radiotelevisione, pronunce nelle quali la Corte si è trovata a inseguire e censurare il legislatore in nome della libertà di manifestazione del pensiero, senza riuscire mai, però, a orientarne fino in fondo le scelte in senso conforme a Costituzione (v. tra le molte la sent. n. 202 del 1976, che apre definitivamente le porte all'emittenza radiotelevisiva di portata locale).

3. Lo smaltimento dell'arretrato

Paradossalmente, il grande successo riscosso dalla Corte Costituzionale nella prima fase della sua attività si è rivelato, nel tempo, una delle principali cause che hanno contribuito a rendere inefficace il funzionamento della giustizia costituzionale. La grande quantità di questioni sollevate ha reso assai difficile giungere ad una revisione in tempi accettabili. L'aumento del numero delle questioni ha dato luogo a una notevole massa di questioni arretrate e a un allungamento della durata dei processi. Questa spirale minacciava non solo di affogare il giudice costituzionale, ma anche di incidere sulla sua funzione istituzionale. Il fattore tempo, la durata del giudizio, risulta fondamentale per gli effetti e l'impatto delle decisioni di costituzionalità sul sistema giuridico. Per fortuna i membri della Corte, consapevoli dei rischi, hanno affrontato il problema alla fine degli anni ottanta, attraverso una serie di riforme della normativa dettata dalla Corte medesima in ordine al proprio processo. Queste riforme hanno dato origine ad una terza fase, denominata "della efficienza operativa" che va dalla metà degli anni ottanta alla metà degli anni novanta. Obiettivo principale di questa nuova fase era quello della riduzione della durata del giudizio costituzionale e del numero delle questioni pendenti, attraverso la dichiarazione di inammissibilità, con ordinanza, di un gran numero di questioni manifestamente inammissibili o manifestamente infondate e attraverso la selezione dei casi sui quali concentrare la propria attenzione. A questo fine, il giudice costituzionale ha introdotto numerose innovazioni di tipo procedurale (organizzazione dei lavori, razionalizzazione della discussione, decisione con ordinanza eccetera) che hanno contribuito a raggiungere detti obiettivi. All'inizio degli anni novanta, il numero delle questioni pendenti era notevolmente diminuito e la durata del giudizio costituzionale era divenuta di nove mesi.

Per ottenere questo risultato sono state fatte alcune importanti rinunce, sottolineate dalla dottrina che proprio in questi anni ha indirizzato la sua attenzione sul processo costituzionale. Ad esempio, l'aumento del numero delle decisioni è stato possibile sì, ma in molti casi questo è andato a discapito della motivazione, che è diventata più sintetica. Le modalità di organizzazione del lavoro hanno ridotto la collegialità della decisione e l'incidenza dell'intervento delle parti del processo, ampliando, parallelamente, la discrezionalità procedurale del giudice costituzionale. In definitiva, la efficienza operativa non sempre significa efficacia delle decisioni. Le decisioni non adeguatamente motivate risultano poco persuasive e comportano il rischio della riduzione del consenso, dottrinale e sociale, rispetto alle pronunce dell'organo di giustizia costituzionale, e, di conseguenza, della sua legittimazione. Anche allo scopo di avere pronunce più attentamente motivate, sono state proposte varie soluzioni di tipo processuale, prima fra tutte la introduzione della dissenting opinion dei giudici costituzionali. Appaiono rivolti a fornire alla Corte maggiori elementi di valutazione anche i tentativi di allargare il giudizio costituzionale ai soggetti portatori di interessi qualificati, collegati alla questione di costituzionalità, ma diversi dalle parti del giudizio a quo. Tutti tentativi che non hanno prodotto, però, alcuna modifica della normativa sul processo costituzionale.

4. La Corte negli anni della transizione

Con la eliminazione dell'arretrato, il sistema di giustizia costituzionale italiano è entrato in una nuova fase, i cui tratti caratteristici risultano ancora incerti.

In primo luogo, la brevità del termine che intercorre tra il momento in cui viene sollevata la questione e la sua decisione fa sì che l'oggetto del giudizio sia rappresentato con sempre maggiore frequenza da leggi appena approvate: leggi volute quindi dalla maggioranza politica del momento. Questa rapidità dei tempi del giudizio comporta rilevanti conseguenze nei rapporti tra la Corte Costituzionale e, da un lato, il Parlamento, e, dall'altro, i giudici. Quanto al primo, la Corte viene trascinata inevitabilmente nell'ambito della contesa politica del momento: quando si tratta di decidere questioni di grande importanza politico-sociale, relative a leggi recentemente approvate, spesso frutto di delicati compromessi e di grandi dibattiti, è inevitabile che le pronunce della Corte finiscano per essere influenzate politicamente e che la decisione tecnico-giuridica rischi di essere valutata, tanto dalla opinione pubblica che dalla dottrina, come decisione di mera opportunità politica. Le difficoltà sono in questi casi evidenti: assume particolare rilievo, al fine di conservare alla decisione la sua autorevolezza, la motivazione data dalla Corte, anche quanto alla sua capacità di persuadere, al lato retorico, piuttosto che logico, della pronuncia. Quanto al secondo aspetto, quello del rapporto con i giudici, la rapidità dei tempi del giudizio e il fatto che investa leggi "nuove" fa sì che la Corte si debba pronunciare sulla costituzionalità di una legge sulla quale non si è ancora venuta a formare una interpretazione giurisprudenziale consolidata, il c.d. "diritto vivente": la Corte viene quindi chiamata ad un compito interpretativo della normativa oggetto del giudizio che non è suo proprio, bensì della magistratura, riproponendosi quei problemi di rapporto con il potere giudiziario che l'utilizzo del "diritto vivente" pareva aver fatto superare.

In secondo luogo, risulta accresciuta in questa fase la preoccupazione per le conseguenze finanziarie delle pronunce, che risulta immediatamente percepibile dall'esame dell'attività della Corte: è frequente, ad esempio, il ricorso a ordinanze istruttorie finalizzate ad acquisire informazioni sui costi di eventuali decisioni di accoglimento ed è stato anche creato un apposito ufficio, la cui attività consiste nella quantificazione degli oneri finanziari di eventuali decisioni di accoglimento, prima che queste siano adottate. Inoltre, l'esame della giurisprudenza mostra la tendenza a ridurre notevolmente, rispetto al passato, il numero di decisioni fondate sul principio di eguaglianza e volte a riequilibrare, verso l'alto, situazioni diseguali. Al contrario, in alcune occasioni la Corte ha scelto la via opposta: a fronte di questioni sollevate in nome del principio di eguaglianza, essa ha scelto di livellare le situazioni verso il basso, sollevando di fronte a se stessa la questione di costituzionalità del tertium comparationis invocato. E'questo il caso della imposta sul reddito delle persone fisiche relativa agli assegni vitalizi dei parlamentari: il trattamento "di favore" ad essi riservato era invocato quale tertium in una questione avente ad oggetto i redditi da lavoro dipendente: la Corte non ha esitato a utilizzare i propri poteri di autorimessione per sollevare la questione relativa al trattamento di favore riservato agli assegni vitalizi, dichiarandone la illegittimità costituzionale (sent. n. 289 del 1994).

Anche per cercare di contemperare i due aspetti -da un lato l'adempimento del suo ruolo di garante della Costituzione, in particolare dei diritti sociali, dall'altro la necessità di non creare direttamente oneri privi di adeguata copertura finanziaria per il bilancio dello Stato- negli ultimi anni il giudice costituzionale ha sviluppato le tecniche decisionali innovative alle quali si è fatto riferimento, e in particolare le pronunce additive di principio: pronunce che sono volte a riconoscere i diritti, ma rimettendo al legislatore la scelta degli strumenti da utilizzare, e la copertura dei relativi costi. Emblematica, al riguardo, appare la sentenza n. 243 del 1993: con questa decisione viene dichiarata la illegittimità costituzionale delle norme che escludono l'indennità integrativa speciale dal calcolo dei trattamenti di fine rapporto, ma si ritiene che tale dichiarazione non possa tradursi in una pronuncia meramente caducatoria, nè in una pronuncia additiva, spettando al legislatore la determinazione dei meccanismi necessari, "anche in vista dell'adozione delle scelte di politica economica necessarie al reperimento delle indispensabili risorse finanziarie".

In terzo luogo, la attuale fase della giurisprudenza costituzionale si sviluppa in un contesto politico-istituzionale instabile, caratterizzato, a partire dal 1992, dalla crisi degli equilibri consolidati, con il crollo del vecchio sistema dei partiti, il mutamento del sistema elettorale, la nascita di schieramenti e formazioni che non hanno ancora raggiunto un sufficiente grado di consolidamento. Anche questi elementi contribuiscono ad accentuare la politicità del ruolo svolto dalla Corte: si è registrato infatti un ampliamento, quantitativo e qualitativo, proprio delle competenze della Corte Costituzionale dotate di un più alto tasso di politicità, come quelle relative ai conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e alla ammissibilità del referendum abrogativo. Di conseguenza, è emersa una tendenza all'accentuazione del ruolo arbitrale della Corte costituzionale, nella conflittualità politica e costituzionale, al quale peraltro la Corte non ha cercato di sottrarsi. Si può richiamare al riguardo la pronuncia resa in tema di sfiducia a un singolo ministro (della quale la Corte ha ribadito la legittimità, pur in assenza di espresse previsioni costituzionali, in quanto connaturata alla forma di governo parlamentare: sentenza n. 7 del 1996); oppure la giurisprudenza in materia di decreti-legge (la Corte è giunta ad affermare la illegittimità costituzionale della reiterazione, con la sentenza n. 360 del 1996, per violazione della certezza del diritto e per l'alterazione che produce nella forma di governo); oppure la giurisprudenza in materia di insindacabilità dei componenti delle camere per i reati commessi nell'esercizio delle proprie funzioni (al riguardo, dopo molti anni di incertezza, la Corte è giunta a annullare una delibera parlamentare di insindacabilità ritenuta adottata in assenza di qualsiasi nesso funzionale tra la dichiarazione del membro del Parlamento e la sua attività parlamentare: sentenza n. 289 del 1998).

La attuale fase è anche caratterizzata dalla necessità, sempre più avvertita, di modificare la Costituzione, che ha dato luogo a vari tentativi di revisione della parte organizzativa della Costituzione, fino ad oggi rimasti peraltro senza esiti concreti. Non è facile capire quale sarà il ruolo della Corte in un periodo di transizione verso nuove, ma al momento assolutamente imprevedibili, forme costituzionali. Essa viene a muoversi tra due possibili estremi, che vanno dalla strenua difesa della attuale Costituzione, in termini di tutela dello status quo e di opposizione al mutamento, fino all'avallo acritico delle proposte di revisione avanzate dal Parlamento. Tra questi due poli sembra più opportuna la scelta di una terza strada, che è quella di facilitare il cambiamento, garantendo che si realizzi nel rispetto del procedimento previsto e, se necessario, dei principi supremi dell'ordinamento costituzionale, che improntano la Costituzione, connotano la forma di Stato, ne garantiscono la continuità.

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